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mercoledì 20 maggio 2015

Doorways home

New London City, ore 14.40

Roosevelt Avenue è come se la ricorda.
Una zona residenziale e ben collegata, tranquille villette o piccoli condomini a schiera, non una delle parti più densamente abitate di quella città di metallo e ossidiana: sufficientemente pacifica, a quell'ora, da permetterle di camminare in pace.
C'era e c'è ancora una fermata della metropolitana a pochissima distanza dal numero 45, -casa di suo padre, della sua famiglia, un tempo anche casa sua- ma Elisabeth Russell ha bisogno di tempo per prepararsi e per mettere un po' di ordine nella sua testa inquieta.
E' primavera e il tempo è sereno, tiepido per le medie stagionali del pianeta; ci sarebbe da godersi una giornata del genere, ma per la strada non c'è nessuno.
Si comincia a sentire la paura che serpeggia per le strade, in quei silenzi innaturali e nell'aria grave della gente che si incontra per strada.

E' arrivata da pochissimo, con uno degli ultimi voli, e già ha abbandonato tutto, cane, gatto e bagagli, al suo alloggio temporaneo.
Quasi sei anni prima aveva percorso le stesse strade, di corsa, in mano una valigia leggera. Il tempo era quasi lo stesso, ma lei aveva gli occhi troppo appannati dalle lacrime che si rifiutavano di uscire per vederlo.
Ora torna, occhi asciutti e viso corrucciato, irritato, in mano la stampella con cui si aiuta a camminare. Il ginocchio, nonostante le cure di Cath e i controlli a Capital City, ha continuato a farle male e rifiutarsi di collaborare pienamente: è difficile anche solo piegare la gamba, e poggiarvi tutto il peso non se ne parla.

Il numero 45 di Roosevelt Avenue è una piccola villetta bifamiliare, frutto del duro lavoro di chi, come il nonno Russell, aveva speso la una vita a creare una piccola ma solida azienda nel ramo costruzioni.
Niente giardino in quella casa, se non un piccolo patio sul retro, ma un grosso portone minaccioso a dividere le due villette dalla strada.
Quante volte c'era entrata, Elisabeth? Al ritorno da scuola, dalle lezioni di musica, da uno dei primi viaggi, dall'Accademia, metà vita passata a fare avanti e indietro da quel portone.
Era questo, insieme alla Firefly di suo padre, ad essere il suo punto di riferimento.

Ma la  Sandman è andata persa, quello che ne rimaneva venduto, e ora Elisabeth non riesce ad avvicinarsi a quell'ingresso familiare senza che il cuore le parta in una corsa sfrenata.

Il passo non la tradisce, nonostante l'ansia: zoppicando, goccioline di sudore sulla fronte, riesce a fermarsi davanti al portone e premere il pulsante del citofono, senza guardare quel movimento disperato, senza pensarci su.
Non è cambiato niente, nemmeno il collegamento video che Peter ha installato, guastatosi quasi subito e mai riparato nemmeno dopo tanti anni.

"Who's there?" la voce della Belva, Lien Xao, vedova Russell, è più gracchiante e debole di quanto ricordasse.

"...Nonna". Perchè fa così fatica a parlare? Non si era accorta di avere un tale groppo in gola, le ci vuole un attimo per far sì che gli occhi smettano di pizzicare. "...it's me, Izzy. Elisabeth".
Si corregge senza poter evitare che la sua voce si faccia rauca, che si spezzi e la lasci in silenzio.

E' un silenzio che viene ricambiato dall'altra parte del citofono. Un silenzio che in realtà dura qualche istante, ma sembrano secoli, ere, eoni, che scorrono attraverso la porta come un fiume gelato.

Elisabeth sente, chiarissimo, lo scatto di qualcuno che chiude il citofono.
Batte le palpebre come frastornata, e sarebbe sul punto di prendere a calci la superficie dura dell'ingresso, ma il portone si apre e non c'è davvero più tempo per pensare.

La famiglia Russell è sempre stata parecchio unita, a dispetto delle notevoli differenze caratteriali e delle tempeste che l'hanno colpita ad intervalli regolari.
Le ultime dichiarazioni a proposito dei Marauders, la ripresa della tecnologia atomica a scopo bellico, nonchè le inquietanti notizie che arrivano dallo spazio, spingono le famiglie a prepararsi al peggio, e loro non fanno eccezione.
Hanno preso a riunirsi per il pranzo pranzo ogni volta che possono, ogni volta come se fosse l'ultima.

Manca solo qualcuno.
Non è solo Elisabeth la viaggiatrice tra le stelle: tutti i suoi cugini più grandi sono partiti per le loro strade, sparsi per i quattro angoli del Sistema Multisolare.

Nonna Lien però c'è, c'è sempre. E' lei ad essersi precipitata, dal piano terra dove sono riuniti, per aprire la porta d'ingresso, quella che conduce ai due appartamenti.

Il tempo l'ha privata della sua proverbiale irruenza, lasciandola secca e fragile come una foglia dimenticata tra le pagine di un libro.

Che sia invecchiata o meno, lo sguardo della Belva è però rimasto identico: occhi chiari che la inchiodano sul posto e la analizzano attenti e severi, un'espressione che la riporta anni luce indietro nel tempo.
Elisabeth sembra rimpicciolire, appoggiata un po' sbilenca sulla stampella, l'espressione ancora più contratta e la gola sempre più secca, il cervello che si svuota improvvisamente di tutte le parole, di tutti i discorsi che l'hanno tenuta sveglia per notti di fila.

"Io...io...io sono passata... a salutare. Pensavo...pensavo che..."

"...Beth?"
E' la voce che viene da dentro, quella voce impossibile, che distoglie la sua attenzione e smette di farla sentire come un'adolescente rincasata troppo tardi. Smette di farla sentire e basta, a parte una specie di pugno nello stomaco che la gela sul posto.

Sulla soglia dell'appartamento, poco dietro la madre, minuta di natura e già severamente in disparte, c'è Peter. Suo padre.
Anche se la folle criniera rossa si è trasformata in un'ordinata coda candida come la neve, e la barba da pirata è più corta, non ha mai smesso di sembrare un mezzo vagabondo.

Non c'è più quella sedia a rotelle su cui si era abbandonato, schiacciato dal peso del mondo e di quegli incubi che gli avevano spezzato la schiena e maciullato il senno.

Gli occhi che si posano su Elisabeth sono lucidi, presenti a se stesso e al mondo intero: la scrutano con calma, senza rivelare niente nonostante si posino sulla stampella qualche istante in più del necessario.
Di stampelle, lui, ne ha due.

"Cosa è successo?"

Elisabeth vorrebbe dire mille cose, ma quello che in realtà succede è un altro di quei silenzi pieni di tensione, e di bocca le escono solo cose sbagliate.
"Non hai risposto alle mail."

Un sogghigno, ed è Peter ad avvicinarsi, lento, senza smettere di guardarla.
"Non volevo rovinarti il divertimento."

"Ora però sono qui."
La risposta sa di sfida aggressiva, ed i suoi pugni sono chiusi, ma il vecchio pilota non sembra scomporsi. Un lampo di orgoglio gli passa negli occhi, verdi come quelli di Elisabeth, ma meno ostili, meno rabbiosi. Il dolore gli ha dato il tempo di maturare gli incubi in qualcos'altro.

"Lo noto. Su, stare piantata lì non cambia le cose. Entra."

Quando entrano in casa, Elisabeth, scortata dalle occhiate stupite e un po' assassine della nonna, si rende subito conto del gelo che cala di botto.
La porta della cucina è aperta e lei può vedere chi c'è dentro, figure familiari degli zii, ma quelle che si sentono sono le voci di uno stupido programma all'holotv.
Una ragazza curiosa fa per affacciarsi, una giovane donna che ricordava bambina. Lei ed Elisabeth si fissano, ma la cugina viene richiamata dentro da sibili ostili prima che possa dire una sola parola.

Le basta un altro sguardo, uno soltanto, e capisce subito che la strada è ancora in salita. Impossibile reprimere una smorfia amara: il perdono incondizionato, il lieto fine automatico sono cose da holofilm.
"Don't mind them." un cenno di Peter, ed è forse meglio spostarsi, in salotto. "Sono solo sorpresi."
Elisabeth esita, cercando di domare quel groviglio confuso di sentimenti che è così facile trasformare in ira, ma quando cerca di parlare le scappano solo parole sconnesse, ed è come un argine che si rompe.

"Io...resto per poco. Ho preso una stanza...lo spazioporto... Ho ancora...i bagagli...disturbo, forse è l'ora sbagliata... dovevo mandare un messaggio...non volevo, io... volevo vedere se stavate...magari torno un'altra volta...non avevo intenzione...mi dispiace...mi spiace...mi spiace così tanto..."

"Oh, ma sta' un poco zitta!" sente la mano fredda di Lien che le tocca la schiena, la spinge verso il salotto, e per la prima volta in tanti anni lei non si ritrae a quella presa, salda e un po' brusca.
Forse la Belva non è diventata poi così fragile.
"Non pensare nemmeno di andartene subito da qualche parte quando hai la tua stanza qui. Si può sapere che hai combinato? Sei tutta pelle e ossa. In cucina c'è qualche avanzo del pranzo, te lo porto. Voi Russell, vagabondi irresponsabili..."

Lien non è mai stata molto diplomatica, una dote che sembra essersi trasmessa lungo le generazioni, ma quelle parole un po' rudi, le prime che ha pronunciato dal suo ingresso in casa, infrangono con la forza di una bomba barriere alte sei anni.

Elisabeth non riesce a capire cosa è successo, se non che il groppo in gola si scioglie e la invade una meravigliosa, fantastica sensazione di calore, un'ondata di affetto che si fa tanto forte di fare male, alla fine.

Peter la vede lottare contro l'orgoglio, la vede ricacciare indietro le lacrime e tirare su con il naso, le labbra strette per impedir loro di tremare, e decide di far finta di niente.
Ridacchia quando, pensando di non essere vista, Elisabeth si asciuga gli occhi con una manica.

"Dai ragazza, vieni. Mettiti comoda. Devi aver fatto un bel viaggio."

Non è cambiato niente del soggiorno: stesso ambiente luminoso, solo con più foto e qualche oggetto tecnologico in più.
Lien torna dopo poco, portando un piatto riempito all'inverosimile di quello che sembra riso, forse con verdure. Ricetta probabilmente naturale, nessuna schifezza sintetica per i pranzi di famiglia.

Elisabeth si vede mettere di fronte il proprio pranzo da una nonnina che subito dopo incrocia le braccia, fissandola con aria rapace, un vecchio falco giudicante.
Di nuovo, Elisabeth si sente piccolissima.
"Io..."

"Mangia." L'ordine perentorio di Lien le fa abbassare la testa con una smorfia ribelle, ma l'anziana donna non se ne va finché non ha preso il primo boccone riluttante, girandosi poi sulla soglia e indicandola minacciosa.

"E sbrigati a darmi l'indirizzo dell'albergo dove hai mollato tutte le cose, che chiamo e te le faccio portare."
Per un attimo, è come se non fosse mai scappata. Lo sguardo affranto che si scambiano lei e suo padre sa di vecchi tempi.
Ma poi torna quel dolore gigantesco, e lei deve fare un nuovo sforzo immane per dominarsi.

 Una volta che nonna Lien se ne è andata, dopo aver estorto l'indirizzo ad Elisabeth, la stanza diventa nuovamente quieta e silenziosa.

Lei ha smesso di mangiare dopo poco, ma non riesce a smettere di guardarsi intorno, e pensare.
Pensa che questa volta è tornata davvero per rimanere a casa.
Pensa che, e penserà ancora anche quando la situazione si farà dura, tutti i viaggi del mondo non valgono quell'unico, glorioso istante di pace.

Il sorriso di Peter, di suo padre, non è quello che ricordava, l'espressione vivace dell'avventuriero pronto a mangiarsi il mondo in un unico morso.
C'è dolcezza, più la stanchezza profonda di chi lotta ancora con i fantasmi dentro la propria testa e ha ancora il tempo di capire quelli degli altri.

Elisabeth riesce a sorridere, appena appena.
"You've changed."
"So did you."

E' un silenzio nuovo, quello che cala, un silenzio che sa di legami rinsaldati e sguardi familiari e messaggi silenziosi pieni di un affetto che lei non riesce ancora a digerire.
Persino il cibo sa di nuovo, e nello stesso tempo sa di casa e cose belle.

"Non posso tornare indietro, vero?"
Peter scuote la testa, ma sta sorridendo ancora.
"Non hai fatto niente di male."

E' troppo forte l'istinto che le fa sfuggire un singhiozzo, trasformato in un gorgoglìo quando cerca di reprimerlo, reprimere un'onda di emozioni che minaccia di travolgerla e portarla via con sè, trascinarla in una strada che non ha mai considerato e che teme ancora.
Elisabeth cerca di dimenticare la frustrazione di non riuscire a parlare, a spiegarsi, cerca di calmarsi: la sua compagna più fedele, quella rabbia sorda e continua,  le fa venir voglia di urlare e prendersi a calci.

"...mi disp..." prova a parlare, a scusarsi di nuovo con uno scatto, ma un gesto di Peter la zittisce di botto.

"No, Beth. Non parlare. Avrei potuto cercarti e non l'ho fatto, anche quando mi hai chiesto aiuto con quelle mail. Temevo di farti scappare ancora più lontano. We're both sorry, and that's enough for me."
Il sorriso si trasforma in una smorfia dura, che scompare dopo pochissimo.

Un altro silenzio, greve di cose non dette.

"Che cazzo ci facevi a lavorare per la Blue Sun, comunque?" la domanda perplessa di Peter la fa quasi scoppiare a ridere.
"Allora hai davvero letto i miei messaggi."
"Dal primo all'ultimo. Ma vorrei che tu mi raccontassi. Sei anni sono lunghi, e abbiamo tempo."

E allora lei, prima a fatica e poi con un torrente di frasi che si accavallano, racconta.
Racconta  di tutti i suoi colleghi di lavoro, degli scherzi e dei momenti di terrore.
Racconta della solidità di Arch, dell'affidabilità di Abe, della dolcezza di Kiersten, degli scherzi di Zoey e degli abbracci di una Lee strafatta di Bloom.
Racconta di risonanze stellari e anomalie spaziali, di meteoriti giganti, di pirati, di corse con la moto, di pistole spianate,di ronde a cavallo per vie illuminate da torce elettriche, di prototipi di elicotteri,  di basi nascoste e di assurde creature rinchiuse in navi alla deriva.
Racconta del silenzio siderale, quello a cui non puoi chiedere risposte, delle rotte battute, della giungla inestricabile di Goldera, della nuova e selvatica bellezza di Roanoke, del suo appartamento a Capital City e della paura su Hall Point, pianeti e posti sperduti in un remoto angolino dell'universo intero.
E la mezzanotte li coglie ancora lì, nel salotto, mentre parlano del tempo e di cose passate, della materia di cui sono fatte tutte le storie.

                                                 
                                                        Life’s a voyage that’s homeward bound. (Herman Melville)

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