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mercoledì 20 maggio 2015

Doorways home

New London City, ore 14.40

Roosevelt Avenue è come se la ricorda.
Una zona residenziale e ben collegata, tranquille villette o piccoli condomini a schiera, non una delle parti più densamente abitate di quella città di metallo e ossidiana: sufficientemente pacifica, a quell'ora, da permetterle di camminare in pace.
C'era e c'è ancora una fermata della metropolitana a pochissima distanza dal numero 45, -casa di suo padre, della sua famiglia, un tempo anche casa sua- ma Elisabeth Russell ha bisogno di tempo per prepararsi e per mettere un po' di ordine nella sua testa inquieta.
E' primavera e il tempo è sereno, tiepido per le medie stagionali del pianeta; ci sarebbe da godersi una giornata del genere, ma per la strada non c'è nessuno.
Si comincia a sentire la paura che serpeggia per le strade, in quei silenzi innaturali e nell'aria grave della gente che si incontra per strada.

E' arrivata da pochissimo, con uno degli ultimi voli, e già ha abbandonato tutto, cane, gatto e bagagli, al suo alloggio temporaneo.
Quasi sei anni prima aveva percorso le stesse strade, di corsa, in mano una valigia leggera. Il tempo era quasi lo stesso, ma lei aveva gli occhi troppo appannati dalle lacrime che si rifiutavano di uscire per vederlo.
Ora torna, occhi asciutti e viso corrucciato, irritato, in mano la stampella con cui si aiuta a camminare. Il ginocchio, nonostante le cure di Cath e i controlli a Capital City, ha continuato a farle male e rifiutarsi di collaborare pienamente: è difficile anche solo piegare la gamba, e poggiarvi tutto il peso non se ne parla.

Il numero 45 di Roosevelt Avenue è una piccola villetta bifamiliare, frutto del duro lavoro di chi, come il nonno Russell, aveva speso la una vita a creare una piccola ma solida azienda nel ramo costruzioni.
Niente giardino in quella casa, se non un piccolo patio sul retro, ma un grosso portone minaccioso a dividere le due villette dalla strada.
Quante volte c'era entrata, Elisabeth? Al ritorno da scuola, dalle lezioni di musica, da uno dei primi viaggi, dall'Accademia, metà vita passata a fare avanti e indietro da quel portone.
Era questo, insieme alla Firefly di suo padre, ad essere il suo punto di riferimento.

Ma la  Sandman è andata persa, quello che ne rimaneva venduto, e ora Elisabeth non riesce ad avvicinarsi a quell'ingresso familiare senza che il cuore le parta in una corsa sfrenata.

Il passo non la tradisce, nonostante l'ansia: zoppicando, goccioline di sudore sulla fronte, riesce a fermarsi davanti al portone e premere il pulsante del citofono, senza guardare quel movimento disperato, senza pensarci su.
Non è cambiato niente, nemmeno il collegamento video che Peter ha installato, guastatosi quasi subito e mai riparato nemmeno dopo tanti anni.

"Who's there?" la voce della Belva, Lien Xao, vedova Russell, è più gracchiante e debole di quanto ricordasse.

"...Nonna". Perchè fa così fatica a parlare? Non si era accorta di avere un tale groppo in gola, le ci vuole un attimo per far sì che gli occhi smettano di pizzicare. "...it's me, Izzy. Elisabeth".
Si corregge senza poter evitare che la sua voce si faccia rauca, che si spezzi e la lasci in silenzio.

E' un silenzio che viene ricambiato dall'altra parte del citofono. Un silenzio che in realtà dura qualche istante, ma sembrano secoli, ere, eoni, che scorrono attraverso la porta come un fiume gelato.

Elisabeth sente, chiarissimo, lo scatto di qualcuno che chiude il citofono.
Batte le palpebre come frastornata, e sarebbe sul punto di prendere a calci la superficie dura dell'ingresso, ma il portone si apre e non c'è davvero più tempo per pensare.

La famiglia Russell è sempre stata parecchio unita, a dispetto delle notevoli differenze caratteriali e delle tempeste che l'hanno colpita ad intervalli regolari.
Le ultime dichiarazioni a proposito dei Marauders, la ripresa della tecnologia atomica a scopo bellico, nonchè le inquietanti notizie che arrivano dallo spazio, spingono le famiglie a prepararsi al peggio, e loro non fanno eccezione.
Hanno preso a riunirsi per il pranzo pranzo ogni volta che possono, ogni volta come se fosse l'ultima.

Manca solo qualcuno.
Non è solo Elisabeth la viaggiatrice tra le stelle: tutti i suoi cugini più grandi sono partiti per le loro strade, sparsi per i quattro angoli del Sistema Multisolare.

Nonna Lien però c'è, c'è sempre. E' lei ad essersi precipitata, dal piano terra dove sono riuniti, per aprire la porta d'ingresso, quella che conduce ai due appartamenti.

Il tempo l'ha privata della sua proverbiale irruenza, lasciandola secca e fragile come una foglia dimenticata tra le pagine di un libro.

Che sia invecchiata o meno, lo sguardo della Belva è però rimasto identico: occhi chiari che la inchiodano sul posto e la analizzano attenti e severi, un'espressione che la riporta anni luce indietro nel tempo.
Elisabeth sembra rimpicciolire, appoggiata un po' sbilenca sulla stampella, l'espressione ancora più contratta e la gola sempre più secca, il cervello che si svuota improvvisamente di tutte le parole, di tutti i discorsi che l'hanno tenuta sveglia per notti di fila.

"Io...io...io sono passata... a salutare. Pensavo...pensavo che..."

"...Beth?"
E' la voce che viene da dentro, quella voce impossibile, che distoglie la sua attenzione e smette di farla sentire come un'adolescente rincasata troppo tardi. Smette di farla sentire e basta, a parte una specie di pugno nello stomaco che la gela sul posto.

Sulla soglia dell'appartamento, poco dietro la madre, minuta di natura e già severamente in disparte, c'è Peter. Suo padre.
Anche se la folle criniera rossa si è trasformata in un'ordinata coda candida come la neve, e la barba da pirata è più corta, non ha mai smesso di sembrare un mezzo vagabondo.

Non c'è più quella sedia a rotelle su cui si era abbandonato, schiacciato dal peso del mondo e di quegli incubi che gli avevano spezzato la schiena e maciullato il senno.

Gli occhi che si posano su Elisabeth sono lucidi, presenti a se stesso e al mondo intero: la scrutano con calma, senza rivelare niente nonostante si posino sulla stampella qualche istante in più del necessario.
Di stampelle, lui, ne ha due.

"Cosa è successo?"

Elisabeth vorrebbe dire mille cose, ma quello che in realtà succede è un altro di quei silenzi pieni di tensione, e di bocca le escono solo cose sbagliate.
"Non hai risposto alle mail."

Un sogghigno, ed è Peter ad avvicinarsi, lento, senza smettere di guardarla.
"Non volevo rovinarti il divertimento."

"Ora però sono qui."
La risposta sa di sfida aggressiva, ed i suoi pugni sono chiusi, ma il vecchio pilota non sembra scomporsi. Un lampo di orgoglio gli passa negli occhi, verdi come quelli di Elisabeth, ma meno ostili, meno rabbiosi. Il dolore gli ha dato il tempo di maturare gli incubi in qualcos'altro.

"Lo noto. Su, stare piantata lì non cambia le cose. Entra."

Quando entrano in casa, Elisabeth, scortata dalle occhiate stupite e un po' assassine della nonna, si rende subito conto del gelo che cala di botto.
La porta della cucina è aperta e lei può vedere chi c'è dentro, figure familiari degli zii, ma quelle che si sentono sono le voci di uno stupido programma all'holotv.
Una ragazza curiosa fa per affacciarsi, una giovane donna che ricordava bambina. Lei ed Elisabeth si fissano, ma la cugina viene richiamata dentro da sibili ostili prima che possa dire una sola parola.

Le basta un altro sguardo, uno soltanto, e capisce subito che la strada è ancora in salita. Impossibile reprimere una smorfia amara: il perdono incondizionato, il lieto fine automatico sono cose da holofilm.
"Don't mind them." un cenno di Peter, ed è forse meglio spostarsi, in salotto. "Sono solo sorpresi."
Elisabeth esita, cercando di domare quel groviglio confuso di sentimenti che è così facile trasformare in ira, ma quando cerca di parlare le scappano solo parole sconnesse, ed è come un argine che si rompe.

"Io...resto per poco. Ho preso una stanza...lo spazioporto... Ho ancora...i bagagli...disturbo, forse è l'ora sbagliata... dovevo mandare un messaggio...non volevo, io... volevo vedere se stavate...magari torno un'altra volta...non avevo intenzione...mi dispiace...mi spiace...mi spiace così tanto..."

"Oh, ma sta' un poco zitta!" sente la mano fredda di Lien che le tocca la schiena, la spinge verso il salotto, e per la prima volta in tanti anni lei non si ritrae a quella presa, salda e un po' brusca.
Forse la Belva non è diventata poi così fragile.
"Non pensare nemmeno di andartene subito da qualche parte quando hai la tua stanza qui. Si può sapere che hai combinato? Sei tutta pelle e ossa. In cucina c'è qualche avanzo del pranzo, te lo porto. Voi Russell, vagabondi irresponsabili..."

Lien non è mai stata molto diplomatica, una dote che sembra essersi trasmessa lungo le generazioni, ma quelle parole un po' rudi, le prime che ha pronunciato dal suo ingresso in casa, infrangono con la forza di una bomba barriere alte sei anni.

Elisabeth non riesce a capire cosa è successo, se non che il groppo in gola si scioglie e la invade una meravigliosa, fantastica sensazione di calore, un'ondata di affetto che si fa tanto forte di fare male, alla fine.

Peter la vede lottare contro l'orgoglio, la vede ricacciare indietro le lacrime e tirare su con il naso, le labbra strette per impedir loro di tremare, e decide di far finta di niente.
Ridacchia quando, pensando di non essere vista, Elisabeth si asciuga gli occhi con una manica.

"Dai ragazza, vieni. Mettiti comoda. Devi aver fatto un bel viaggio."

Non è cambiato niente del soggiorno: stesso ambiente luminoso, solo con più foto e qualche oggetto tecnologico in più.
Lien torna dopo poco, portando un piatto riempito all'inverosimile di quello che sembra riso, forse con verdure. Ricetta probabilmente naturale, nessuna schifezza sintetica per i pranzi di famiglia.

Elisabeth si vede mettere di fronte il proprio pranzo da una nonnina che subito dopo incrocia le braccia, fissandola con aria rapace, un vecchio falco giudicante.
Di nuovo, Elisabeth si sente piccolissima.
"Io..."

"Mangia." L'ordine perentorio di Lien le fa abbassare la testa con una smorfia ribelle, ma l'anziana donna non se ne va finché non ha preso il primo boccone riluttante, girandosi poi sulla soglia e indicandola minacciosa.

"E sbrigati a darmi l'indirizzo dell'albergo dove hai mollato tutte le cose, che chiamo e te le faccio portare."
Per un attimo, è come se non fosse mai scappata. Lo sguardo affranto che si scambiano lei e suo padre sa di vecchi tempi.
Ma poi torna quel dolore gigantesco, e lei deve fare un nuovo sforzo immane per dominarsi.

 Una volta che nonna Lien se ne è andata, dopo aver estorto l'indirizzo ad Elisabeth, la stanza diventa nuovamente quieta e silenziosa.

Lei ha smesso di mangiare dopo poco, ma non riesce a smettere di guardarsi intorno, e pensare.
Pensa che questa volta è tornata davvero per rimanere a casa.
Pensa che, e penserà ancora anche quando la situazione si farà dura, tutti i viaggi del mondo non valgono quell'unico, glorioso istante di pace.

Il sorriso di Peter, di suo padre, non è quello che ricordava, l'espressione vivace dell'avventuriero pronto a mangiarsi il mondo in un unico morso.
C'è dolcezza, più la stanchezza profonda di chi lotta ancora con i fantasmi dentro la propria testa e ha ancora il tempo di capire quelli degli altri.

Elisabeth riesce a sorridere, appena appena.
"You've changed."
"So did you."

E' un silenzio nuovo, quello che cala, un silenzio che sa di legami rinsaldati e sguardi familiari e messaggi silenziosi pieni di un affetto che lei non riesce ancora a digerire.
Persino il cibo sa di nuovo, e nello stesso tempo sa di casa e cose belle.

"Non posso tornare indietro, vero?"
Peter scuote la testa, ma sta sorridendo ancora.
"Non hai fatto niente di male."

E' troppo forte l'istinto che le fa sfuggire un singhiozzo, trasformato in un gorgoglìo quando cerca di reprimerlo, reprimere un'onda di emozioni che minaccia di travolgerla e portarla via con sè, trascinarla in una strada che non ha mai considerato e che teme ancora.
Elisabeth cerca di dimenticare la frustrazione di non riuscire a parlare, a spiegarsi, cerca di calmarsi: la sua compagna più fedele, quella rabbia sorda e continua,  le fa venir voglia di urlare e prendersi a calci.

"...mi disp..." prova a parlare, a scusarsi di nuovo con uno scatto, ma un gesto di Peter la zittisce di botto.

"No, Beth. Non parlare. Avrei potuto cercarti e non l'ho fatto, anche quando mi hai chiesto aiuto con quelle mail. Temevo di farti scappare ancora più lontano. We're both sorry, and that's enough for me."
Il sorriso si trasforma in una smorfia dura, che scompare dopo pochissimo.

Un altro silenzio, greve di cose non dette.

"Che cazzo ci facevi a lavorare per la Blue Sun, comunque?" la domanda perplessa di Peter la fa quasi scoppiare a ridere.
"Allora hai davvero letto i miei messaggi."
"Dal primo all'ultimo. Ma vorrei che tu mi raccontassi. Sei anni sono lunghi, e abbiamo tempo."

E allora lei, prima a fatica e poi con un torrente di frasi che si accavallano, racconta.
Racconta  di tutti i suoi colleghi di lavoro, degli scherzi e dei momenti di terrore.
Racconta della solidità di Arch, dell'affidabilità di Abe, della dolcezza di Kiersten, degli scherzi di Zoey e degli abbracci di una Lee strafatta di Bloom.
Racconta di risonanze stellari e anomalie spaziali, di meteoriti giganti, di pirati, di corse con la moto, di pistole spianate,di ronde a cavallo per vie illuminate da torce elettriche, di prototipi di elicotteri,  di basi nascoste e di assurde creature rinchiuse in navi alla deriva.
Racconta del silenzio siderale, quello a cui non puoi chiedere risposte, delle rotte battute, della giungla inestricabile di Goldera, della nuova e selvatica bellezza di Roanoke, del suo appartamento a Capital City e della paura su Hall Point, pianeti e posti sperduti in un remoto angolino dell'universo intero.
E la mezzanotte li coglie ancora lì, nel salotto, mentre parlano del tempo e di cose passate, della materia di cui sono fatte tutte le storie.

                                                 
                                                        Life’s a voyage that’s homeward bound. (Herman Melville)

martedì 12 maggio 2015

Every cloud has a silver lining

La seguente è una lettera cartacea, scritta sul retro di quello che sembra un foglio di uno spartito, scovato non si sa esattamente dove, e lasciata al vicino di casa di Elisabeth.


Lee;
Ho visto cosa hai scritto sulla porta di casa. Stronza maledetta. Stavolta non mi ci impegno nemmeno, a pulire.
Mi spiace solo di non esserci stata per rincorrerti.

Si sono preoccupati tutti a morte, ma don't worry. Now I'm fine.
Ho scoperto una cosa nuova. E che, lo ammetto, non mi è piaciuta.

Lasciati dire che sei un'idiota, un pazzesco e assurdo esemplare di idiota. Che siamo due idiote, precisamente, perchè a forza di difenderti l'ho fatto con la persona sbagliata, e ne sto continuando a pagare il prezzo con una stampella che spero di togliere, prima o poi, e un ginocchio che fa male.

Davvero ti hanno bloccata su Hall Point? Davvero tu ci sei rimasta, con tutto quello che hai spifferato su di loro, dopo che mi hai fatto ospitare in gran segreto la vedovella?
Porca miseria, Lee, che cazzo ti è passato per la testa?

Ci credo che sei sparita da ogni radar conosciuto, non ti posso biasimare: io stessa ho beccato l'occasione di scappare a gambe levate (insomma, relativamente a gambe levate) da lì e ci sono riuscita. Non credo che a qualcuno importasse, con il casino che sta succedendo.

Mi è andata bene: credo stessero cercando piloti come me da ingaggiare, a qualunque costo. Che fossi consenziente o no, poco importava. Ho avuto paura, ad un certo punto.
Spero non ti abbiano fatto del male come lo hanno fatto a me.
Ora è tutto a posto, credo.

Eh, a proposito del casino che sta succedendo...
Mi assento dal mondo per qualche tempo, e quando torno trovo minacce di apocalissi, Marauders e ritorno all'atomica. Ma insomma, che diamine passa per la testa a tutti quanti?

Scusami.
Non ti ho lasciato questa lettera per niente, voglio tornare alle cose più importanti, e stavolta, per una volta almeno, cercherò di essere sintetica.

Sto per lasciare Capital City. Tra poco darò le mie dimissioni dalla Blue Sun, e mi preparo a partire. No, le tue schifosissime e zuccherosissime scritte che mi lasci sulla porta di casa non c'entrano niente.

Ho bisogno di tempo per me. Mi stanno cambiando troppe cose intorno, ma solo ora riesco ad intravedere che razza di strada devo fare.

Ce ne ho messo, di tempo.
Ho viaggiato così tanto, in lungo e in largo, ho visto gente di tutti i tipi e ho concluso che siamo tutti un po' coglioni alla stessa maniera. Io più di tutti

Circa sei anni fa, verso la fine della guerra, ho abbandonato la mia famiglia e tutto quello su cui stavo lavorando, sono scappata per il terrore e ho vissuto una vita con un peso sulle spalle. Devo tornare da loro.
Che finisca tutto in un grande botto o meno, al momento, non me ne importa.

Ho bisogno di tirare le somme: sono diventata un animaletto selvatico che si dibatte in una rete immaginaria, che morde e soffia contro tutti.
Ho bisogno di sapere e di tornare indietro per riordinare il caos che ho in testa.

Ho bisogno di guarire, di provare ad incollare i pezzi che sono rimasti e vedere se ne esce qualcosa di buono, o quantomeno passabile. 

Non combatterò.
Nella mia famiglia lo si è già fatto, e il risultato è stato una lapide e un viaggio bonus in un reparto psichiatrico. Non metterò mano su una cloche, non quando questo conflitto rischia di distruggerci tutti quanti, Core, Border e Rim, uniti per la prima volta nella più grande stronzata di tutti i tempi.
Non impariamo mai, eh?
 
Perciò, se mi cerchi, mi troverai su New London. Ho detto a mister Gordon di darti questa lettera in caso ti venga voglia di farmi una sorpresa e fossi nei paraggi.
Il mio contatto cortex è cambiato, ma lo potrai chiedere al mio vicino, te lo darà.
La mia casa sarà presto data in affitto, e le pulizie saranno cazzi loro.

Avevo promesso di essere sintetica, invece sono arrivata alla fine della pagina e ho cercato di scrivere il più piccolo possibile (auguri).

Ciao, Lee.
Spero che tu mi venga a trovare: cercherò di abbracciarti, se posso. E' una promessa. Cerca di arrivare in tempo, stavolta.
Prova a lasciarmi messaggini come le ultime volte e ti ci ficco io dentro un'atomica.

I'm going home.
                                                                                       
                                                                                                          Beth

mercoledì 29 aprile 2015

To roll the dice.

  [Il destinatario della Cortex mail è sempre lo stesso, il nome segnato con le iniziali.]

Old man.

Non ti scrivo da molto. Chissenefrega, tu dirai.
Forse ho perso la speranza di riuscire a mandarti questo stupido pacco di stupide mail.
Cazzo, sei anni e mi decido ora ad avere i rimorsi di coscienza. Buddha maledetto, che cretina che sono.
Se mi vuoi mandare a fanculo hai pure ragione, eh. Non mi arrabbio. Cioè, non mi arrabbio più di quanto faccio di solito.
E va bene, mi incazzerò come una bestia ma l'unica che dovrò incolpare di queste stronzate che ho fatto sono io.


Per la miseria, è che non credevo ci sarei stata male. Credevo di poter scappare per sempre. Credevo di essermela costruita bene, l'armatura.
Ah, porca puttana. Mi mancate.
Mi manchi tu.
Ho corso anni in lungo e in largo per il Verse, e poi alla fine mi sono resa conto di non essermi mai mossa realmente. Tutto è lì, nella testa, e come si scappa da quelle cose?

Cazzo, che fregatura.
Hai presente quegli holofilm idioti che mi facevi vedere, quelle storie dell'orrore che ancora adesso mi fanno venire i brividi, ma per lo schifo della sceneggiatura?
Hai presente quando la bionda svampita di turno, per salvarsi, si chiude nella stanza con il Tremendo Assassino munito di Strumento Appuntito e Pericoloso?
Ecco, come livello di intelligenza io sono a quello della bionda svampita. Mi sono chiusa da sola nella mia testa e credo di star strillando da un pochino.

Non ho illusioni che tu sia sano di mente, però mi piacerebbe poterti raccontare tutte le cose che mi succedono.
Ogni tanto salvo pure il culo alle persone piuttosto che prenderlo a calci, pensa te. Poresti addirittura meravigliarti.

Ti giuro, provo a fare la brava anche sul piano personale. E davvero tu non hai idea di quanto mi prudano le mani, ultimamente.

Zoey ha lasciato Capital City. Te ne ho parlato, la CEO che assomiglia ad una fottutissima scimmia è andata verso il suo lietissimo fine a Corona, ad annoiarsi a morte in mezzo a gente con pali nel culo grossi come heavy cruisers, con maritino e figlio.
A pensarci mi viene un pochino di nausea, e credo mangerò cose non zuccherate per il prossimo secolo, forse anche due.
Mi manca.

Ora c'è un'altra CEO, una tipa importante. Declan Khan: non so tantissimo di lei, a parte che è un genio e che possiede un gatto gigante e viola.
Sul serio, gigante e viola. Un peccato che non l'abbia visto direttamente, ma la fonte è piuttosto affidabile.
Non ho avuto ancora il tempo di capire che tipo sia, ma chiunque abbia il coraggio di tenersi in casa una roba del genere un po' fuori di testa deve essere per forza.
Oppure fuori di testa lo era chi mi ha raccontato questa stronzata: è una cosa che devo ancora verificare.

Lee ancora non mi risponde nè mi contatta. Ogni giorno passo di fronte al messaggio che mi ha scritto sul muro, lo vedo anche dalla finestra della stanza da letto, stramaledettissimi cuoricini con tanto di amore. Quella stronza.
Ho pure provato a cancellarlo, ma non veniva via e la gente del condominio pensava stessi impazzendo.
Spero che, ovunque sia, abbia trovato un posto in cui essere felice. Tutto, basta che non mi lasci  più messaggi minatori sulla porta della mia camera di un'astronave o che faccia graffiti passivo-aggressivi con quel maledetto stile che la caratterizzava.
Chissà, magari è morta in un fosso e io non lo saprò mai, controllerò il cortex per anni sperando si faccia viva.
E' questo che provi tu?

Sto divagando e mi ero ripromessa di non farlo. Non era di questo che ti volevo parlare.

E' che sono stanca di fare sempre la mia strada da sola. Non vedo dove mi porterà, è come se fosse un sentiero immerso nel fottuto nulla.
Non so da dove partita e non vedo la destinazione. Forse un burrone, lì cadrò e mi romperò tutte le ossa.

Mi piacerebbe sentire di nuovo la tua voce, e quella della Vecchiaccia e della famiglia. Mi sento come quella pianta che ti avevano regalato per il compleanno, quella a cui hai mozzato per sbaglio tutte le radici con quel pollice assassino che ti ritrovi, e che si seccò a metà.

Ho una paura fottuta, Old man. Paura di avervi lasciato tutti troppo presto, di essere scappata invano, eppure so di non poter tornare: tra di noi c'è una distanza siderale, e non parlo di parsec.
Io sono quella che ha mollato.
Quella che è scappata, la stronza che l'odio se lo merita pure, perchè ha lasciato suo padre in una stanza dell'ospedale psichiatrico e ha preso la prima nave per non si sa dove.

Come posso tornare indietro, ora che sto riuscendo a rimettere insieme i pezzetti, ora che sto prendendo fiato?
E' stressante non sapere che fare.

Lo sai, ho incontrato un vero psicopatico. Ti chiederai che cazzo c'entra, ma fidati, ha senso con il discorso.
A dire la verità, ci lavoro pure insieme. E' lui che mi fa prudere le mani.
Vorrei prenderlo a botte fin quando non è così conciato male da dover mangiare brodini di dado per mesi.
Peccato però non poterlo fare, perchè ci tengo a mantenere il mio lavoro. Per inciso, chiunque abbia inventato quella boiata totale del Posto Felice nella Mente andrebbe ficcato nella tazza di qualche cesso... a testa in giù.

Non ti vorrei parlare di questo tizio perchè mi fa venire la pelle d'oca e la pressione alta, però anche io che sono cretina riesco a vedere quanto abbia assorbito chissà quale merda, quanto sia fuori dai mondi conosciuti, e quanto soprattutto schifi tutti.
Forse schifa la gente più di me. Però sa sorridere, anche se è inquietante.
Te l'ho detto, è folle sul serio.
Basta sentirlo parlare del Rim, se tu avessi la fortuna di ascoltare un mezzo suo discorso credo mi daresti il permesso in pompa magna di passargli sopra con una ruspa.

Che dici, rischio di diventare anche io così, alla lunga?
Oppure che so, tipo una gattara come la signora Finnick, quella del primo piano che ossessiona i randagi di quartiere e se ne va in giro alle cinque del mattino strillando quimiciomicio?

Stronza lo sarò sempre, ma che fine farò?
Che fine fa la testa quando ci sono troppe ragnatele? Quanto è lontano il mio burrone?
Oppure finirò semplicemente per perdermi o ficcarmi un colpo in testa così, per smetterla di pensare, per far cessare questa fila di pensieri che si prendono a botte per emergere?
Che ti è successo, dove sei? Stai bene? Mi hai perdonato? Siete sereni?

La sai una bella cosa?
Vaffanculo. Mi sono stancata.
Forse la serenità non la guadagnerò, ma ora basta. Basta.

       [I messaggi precedenti che portano lo stesso mittente vengono allegati ad una sola mail.]
            [La mail viene inviata dopo circa un'ora. Di risposte, tuttavia, nemmeno l'ombra.]






mercoledì 18 febbraio 2015

A storm in a teacup.

[Ennesimo messaggio cortex mai inviato: il destinatario è sempre lo stesso contatto.]

Dear old man, come te la passi in quel buco fetido in cui ti sei cacciato?

Sto guadagnando capacità di raziocinio, la Blue Sun mi fa bene. Strano, eh?
Ci sarebbero un paio di novità da raccontarti: sono stata promossa (e non cacciata ancora ,mi meraviglio di me stessa), e sono stata presa a pugni da una pazza (e qui...beh, qui mi meraviglio giusto un pochino meno).

Ultimamente mi faccio troppe domande. Fanculo, mi sto ammorbidendo, diciamolo chiaramente.

Penso a tutta la gente che ho incrociato. Incrociato è la parola adatta, perchè non sono mai stati altro che contatti sporadici, brevi voli nello spazio di qualcun altro e poi ognuno via, lontano, verso la propria rotta.
Siamo navi che non vanno da nessuna fottutissima parte e, detta con sincerità, questo viaggio del cazzo comincia a sembrarmi un po' inutile.
E' questo che pensi, è questo quello che ti ha fatto uscire fuori di testa?

Penso ai Black Ravens. Arch, Ming, Noah, Tali, Raiko...no, non puoi conoscerli e non li conoscerai mai. Una delle tante compagnie commerciali di questo Verse, uno dei tanti assembramenti di gente fuori di testa e stranezze varie.
Non ero neanche la più bizzarra, vedi un po' tu.
Il capitano Stanton ti sarebbe piaciuto. Un idiota tutto di un pezzo, di quelli che adori. Un po' mi ricordava te, e spero ardentemente non abbia fatto la tua stessa fine.

Sono stati il mio primo porto sicuro dopo cinque anni di muri eretti e fughe precipitose. Oh, e licenziamenti lampo, questo vale la pena di dirlo.
Non credevo che finissi per essere sopportata, addirittura apprezzata. Io mi sono davvero impegnata per evitarlo.
Vedi un po' che gente gira nel Verse...

Penso ai termini con cui ci siamo separati, alla tensione e allo scioglimento della compagnia.
Cazzo, quanto mi manca quella vita.
Lo so, ora è una pacchia, ma certe volte lo sogno ancora, dei giorni di volo, di andare verso Hall Point con un occhio ai pericoli e ai pirati, di andare a cavallo (sì, sono andata a cavallo e ho ricevuto la mia dose di sfottò, grazie), di immischiarmi in avventure assurde e finirci non sempre benissimo.
Oh, vero: quello lo faccio ancora. Forse era davvero l'unica cosa che ci tenevo a non ripetere.

La vita ha un modo tutto suo di prendermi per il culo.

Penso alla Blue Sun. Penso a come mi sto abituando a Capital City e alla sua gente snervante.
 Penso ad Abe Stone, che si è sempre fidato di me e che è tornato a fare le sue snervanti opere di bene in giro, lo sa lui dove. Penso a Jade Lee, George Russell, e tutti i dipendenti che continuano a rompermi le palle quasi quotidianamente, o che me le hanno rotte.

Penso a Ryan, forse l'unica persona delle mie conoscenze che piacerebbe ad entrambi.
Lo trovo un tipo a posto, stranamente ci si può anche parlare.

Penso a Zoey, quell'altro caso disperato, penso alla scimmietta di pezza che le ho regalato e immagino che non vi sia pensiero più adatto per una persona del genere.
Forse un vestito rosa confetto, ma io non comprerò mai cose rosa confetto. Mai.

Te la ricordi la scimmia di Jonathan, vero? Quella cosa pulciosa.
L'unica differenza è che Zoey ha i capelli rossi e parla.
E non si gratta il culo in pubblico, spero.

Poi penso a Lee. Penso che se mi venisse voglia di abbracciare qualcuno sarebbe lei. Penso che avrei voluto dirle tante cose e non l'ho fatto,  penso che avrei voluto e dovuto fare di più.
Avrei voluto farle capire che ci tenevo, e invece no, perchè sono un'idiota.

Mi sento un'idiota perchè l'ultimo messaggio che ho di lei mi fissa tutti i giorni quando esco ed entro fuori di casa, e io non la riesco a contattare.
Non la voglio contattare, forse: ho costruito barriere che nemmeno io saprei come valicare e distruggere.

Mi sento un'idiota perchè non riesco a contattare nemmeno te, i messaggi cortex si stanno impilando nella memoria, e li leggo senza sapere che fare.

Mi sento un'idiota perchè tra non molto, tra qualche mese, saranno sei anni che non so che fine abbiate fatto, che non mi interesso di voi, sei anni di fuga e io sto ancora scappando.

Che cazzo.
I'm stuck.

lunedì 12 gennaio 2015

To be like chalk and cheese

[In questo messaggio Cortex vi è  un allegato, una fotografia di un muro piuttosto anonimo. Ciò che in realtà colpisce è la scritta rosso brillante che qualcuno ha fatto comparire forse nottetempo:
                             RUSSELL
DEVO ANDARE
MA TI PENSER
AMERO'
PER SEMPRE
 all'interno di un cuore gigantesco. Il tutto contornato da ulteriori cuoricini alquanto vezzosi. Il messaggio che segue, allegato compreso, viene inviato a Elian]


ELIAN CHERNENKO. LO SO CHE SEI STATA TU.

CHE CAZZO HAI FATTO.

Tu non capisci. NON capisci.
Da stamattina in poi sta venendo a bussare alla mia porta tutto il condominio. TUTTO.
Cioè, forse non tutto, ma la buona metà bisbiglia quando passo e FA LO STESSO.
Io mi ero presa dei giorni di ferie, la miseriaccia tua, contavo di poter passare un po' di tempo in sacrosanta pace, ed ecco che quella ficcanaso rincoglionita della signorina Yuan mi viene a rompere le palle -che non ho- dicendo quanto sia carino che qualcuno mi ami così tanto (giuro che i corsivi verbali sono suoi. E' veramente fuori).

Io lo so che sei stata tu. Ti odio. Fai bene ad andare. Se ti becco...

...
...
...

[Il seguente messaggio viene inviato allo stesso indirizzo, nell'arco di pochissimi secondi]
 Lee, dove stai andando? Dove sei sparita?
Non mi sono mai preoccupata tanto dei tuoi viaggi, di quanto vagabondassi, ma perchè stavolta dovresti lasciarmi un messaggio del genere?

Mi ricorda la faccenda del rossetto (non ti ho ancora perdonata).
Dove andrai stavolta? Dove sarai la prossima settimana? Con cosa hai a che fare stavolta? In quale guaio hai portato le chiappe, eh?
Quel tuo idealismo del cazzo.

Non posso dirti di non sparire, che mi mancherai. No, non quando io sono la prima che sa cosa si prova e non mi mancheranno le tue scritte sui muri.
Su questo ci siamo sempre intese: una scappa fuori, una scappa dentro, entrambe prigioniere di inquietudini, a vagabondare senza mai un attimo di riposo.
Quali mostri ti spingono avanti, Lee? Che cosa hai lì dentro, nella testa?
Non ti ho mai chiesto niente, non ho mai voluto sapere niente nè mai lo vorrò. 
Forse è per questo che continuerò a pormi domande senza risposta.  

Mi dispiace se sono sempre stata così lontana, se non ti sono stata vicina come meritavi, se ora sarai solo un altro di quei rimpianti che sarebbe meglio non avere.
Non ci so fare con la gente. O forse è la gente che non ci sa fare con me?
Ma sappi che hai vinto tu, Lee. Da un sacco di tempo.
Da quella torta, ricordi? La faccenda dei pirati.
Sei stata la prima faccia davvero amica che ho visto al di fuori dell'astronave, una stupida idealista che ci aspettava con dei pezzi di torta alle mele.
Io certe cose non le dimentico. E' stato allora che ho capito: forse un poco potevo fidarmi di te.
 ...anche se mi farai andare in giro per i prossimi tempi con l'aria di una ladra. Russell? Io? Chi lo conosce?
Spero che quel muro si possa lavare facilmente. Altrimenti...

D'accordo, un poco ti voglio anche bene.
Se fai un giro a Capital City, casa mia è aperta per te.
Sempre. 

Basta che non mi sporchi niente, o ti impicco con quei tuoi fottutissimi maglioni invernali, quelli brutti come la fame.
E corri, Lee. Corri più forte di te stessa.
Sopravvivi.




[Entrambe le cortex mail tornano indietro, in quanto il contatto risulta inesistente.
Vi è però un'ultima bozza.]


Hai anche cambiato contatto cortex, eh? Brava. Non dubitavo l'avresti fatto.
Ma non ti preoccupare.

In un modo o nell'altro troverò il modo di contattarti, maledetta.